Affascinanti, mastodontici capolavori dell’ingegneria, i razzi hanno sempre rappresentato l’unico ponte possibile tra la realtà della Terra e la fantascienza dello spazio profondo. Da tempo le maggiori personalità dell’esplorazione spaziale sostengono che, per l’umanità, uno dei modi di salvare il pianeta sia quello di diventare una specie interplanetaria. Ma quanto costa alla nostra casa il sogno di poterla, un giorno, abbandonare? Quanto inquina un razzo?
L’impatto ambientale dei razzi è da ricercarsi non solo nelle loro emissioni atmosferiche vere e proprie, ma anche nei componenti che vengono fatti cadere nell’oceano nelle fasi di ascesa e discesa. O ancora, nei detriti spaziali lasciati in orbita nel corso di decenni di esplorazione spaziale. Questi, col tempo, precipiteranno verso terra, disintegrandosi nella maggior parte dei casi durante il rientro in atmosfera.
Inoltre, c’è da considerare tutto quello che circonda il lanciatore in sé, come la produzione dei suoi componenti, il loro trasporto e tutte le operazioni da svolgere a terra prima di effettuare il lancio. Nel caso dei lanciatori riutilizzabili bisognerebbe mettere a bilancio anche le emissioni dei mezzi di recupero del primo stadio del vettore, che atterra in pieno oceano. Per fare un esempio, il Falcon 9 della SpaceX è solito atterrare sulla piattaforma OCISLY situata nell’Atlantico a circa 300 km dalla base di lancio di Cape Canaveral!
Se delle strutture imponenti come i lanciatori, alte decine di metri e pesanti centinaia di tonnellate, riescono a librarsi in aria a velocità nell’ordine di kilometri al secondo è solo grazie ai loro endoreattori, motori così chiamati in quanto il fluido operativo è preso dall’interno del reattore stesso: questa loro peculiarità permette loro di sprigionare straordinarie quantità di energia così da ottenere elevate accelerazioni del propellente utilizzando piccole quantità di aria, sfruttando al massimo l’energia cinetica estraibile dai processi chimici che hanno luogo nella camera di combustione del motore.
Sfortunatamente, le sostanze in grado di fornire questo tipo di prestazioni non sono esattamente environmental-friendly. Basti pensare che le più comuni in uso ad oggi sono l’RP-1 (un tipo di cherosene liquido che, per quanto raffinato, resta pur sempre un combustibile fossile), l’idrogeno, il metano e combustibili solidi come perclorato di ammonio, alluminio o polveri di magnesio per i booster. Proprio i booster rappresentano, ad oggi, il tipo di propulsione di gran lunga peggiore per l’ambiente visto che la combustione del perclorato rilascia in atmosfera acido cloridrico, potenziale causa di piogge acide.
Naturalmente tali sostanze non sono utilizzate tutte insieme, ma si cerca di combinarle (dando origine al propellente vero e proprio) nella maniera più efficiente possibile. Ogni tipo di propellente ha dei propri caratteristici prodotti di combustione, il che evidenzia come le emissioni stesse dipendano dal carburante utilizzato. Non solo, anche il tipo di missione e la destinazione ultima del vettore spaziale influiscono sull’impatto ambientale di un razzo.
Quindi per parlare di quanto inquina un razzo dobbiamo tornare ai prodotti. Quelli rilasciati in maggior quantità ogni qualvolta viene effettuato un lancio sono CO2, vapore acqueo, fuliggine di carbonio, ossidi di azoto (NO2), cloro, allumina e composti solforici: tutte queste, chi più chi meno, sono sostanze inquinanti, dannose per l’ozono o gas serra. Sostanze come gli NO2 , emesse da ogni tipo di propulsione, possiedono addirittura tutti e tre gli attributi, risultando in prodotti nocivi ma inevitabili in quanto conseguenza del contatto della fiamma calda con l’aria esterna della troposfera.
In ogni caso, la presenza di queste sostanze nell’atmosfera contribuisce senza dubbio all’effetto serra: anche il prodotto di combustibili e ossidanti “puliti”, come possono esserlo idrogeno e ossigeno liquidi, comporta il rilascio di vapore acqueo in tutti i livelli dell’atmosfera. Ma se nella troposfera esso viene smaltito in modo relativamente semplice attraverso il ciclo naturale dell’acqua, negli strati soprastanti è più difficile che ciò accada in quanto i gas serra tendono a rimanere bloccati dove la densità dell’aria è minore, aumentando di conseguenza il forzante radiativo, l’indice che misura la variazione termometrica della terra.
Secondo i dati riportati dall’ICCT, nel 2018 l’industria dei voli spaziali ha contribuito al rilascio in atmosfera di circa 22,000 tonnellate di CO2, con una media di 200 tonnellate a lancio per un totale di 114 lanci. Indubbiamente molte, ma del tutto insignificanti se comparate con le 918,000,000 tonnellate del traffico aereo, che pesano comunque per il 2.4% delle emissioni annue globali! Facendo un paio di calcoli, vediamo come i lanci effettuati in quell’anno hanno contribuito per lo 0.0000059% al rilascio antropogenico di anidride carbonica, ben al di sotto dell’unità percentuale. Numeri che, seppur non pari allo zero, fanno sorridere paragonati al 24% del settore agricolo o al 25% della produzione di energia.
Ciononostante, per quanto le stime rimangano apparentemente rassicuranti, la maggiore preoccupazione riguarda l’aumento del numero di lanci all’anno, trend che rimane assolutamente in salita specialmente con l’incipiente avvento del turismo spaziale guidato dai magnati Jeff Bezos e Richard Branson, rispettivamente con Blue Origin e Virgin Galactic. Nel 2021, infatti, il numero totale dei lanci effettuati è stato pari a 146 (la maggior parte dei quali diretti in LEO, l’orbita terrestre bassa) di cui molti per conto di USA, Russia/UE e Cina, che si confermano essere i protagonisti del settore.
Per cominciare, l’ideale sarebbe liberarsi dei booster a propellente solido, che abbiamo visto non essere esattamente un toccasana per l’ambiente, in favore di una propulsione basata su idrogeno e metano liquidi, di gran lunga i combustibili più green in circolazione, oppure sui cosiddetti biofuels. Chiaramente non bisogna focalizzarsi solo sul propellente in sé, ma anche su come esso viene utilizzato dal razzo: più che utilizzare motori a ciclo aperto, dove i gas esausti vengono rilasciati direttamente all’esterno, si dovrebbe prediligere un’architettura a ciclo chiuso. Questo tipo di motore, infatti, permette di sfruttare quanto più carburante possibile evitando di scaricarne troppo all’esterno, garantendo inoltre prestazioni migliori in termini di impulso specifico (rispetto alla configurazione a ciclo aperto), il che significa che riescono a compiere più lavoro a parità di carburante utilizzato.
Si potrebbe anche iniziare a produrre carburante attraverso le energie rinnovabili come sta pensando di fare SpaceX per il suo Starship che, alimentato a metano e ossigeno liquido (methalox) in un ciclo chiuso, arriverebbe ad avere un impatto ambientale pressoché nullo utilizzando il solare. Infatti, grazie all’energia elettrica da esso ricavata, è possibile produrre idrogeno tramite elettrolisi dell’acqua o, ancora, estrarre vapore acqueo e anidride carbonica dall’ambiente circostante per renderli, mediante la reazione di Sebatier, nuovamente metano e ossidante per alimentare il prossimo lancio, generando così una sorta di ciclo della CO2 e soprattutto un vettore potenzialmente carbon-neutral. Questa soluzione, almeno per il momento, rimane confinata al problema del ritorno da Marte, visto che fortunatamente la Terra abbonda di metano.
In un discorso durante la Space Development Conference a Los Angeles, Jeff Bezos ha dichiarato come, tra qualche decade, si potrebbe pensare di spostare l’industria pesante sulla Luna, affidando all’energia solare il compito di alimentarne la produzione mediante fattorie solari spaziali (tecnicamente note come Lunar-based Solar Power system), come proposto dal fisico David Criswell, in virtù dell’enorme quantità di energia che si avrebbe a disposizione in assenza di atmosfera.
Tornando invece a rimedi più realizzabili e tangibili, una soluzione già abbondantemente adottata soprattutto dalla SpaceX è rappresentata dai lanciatori riutilizzabili: così facendo, oltre che abbattere i costi per singolo lancio, si vanno ad ammortizzare tutte le emissioni legate alla produzione e al trasporto dei componenti lungo tutto il ciclo di vita del razzo, che può essere anche di diverse decadi.
Appare dunque evidente come ci sia ancora tanta strada da fare, ma la comunità scientifica intera si è più volte mostrata unita nelle intenzioni di salvaguardare il pianeta e, anche se a prima vista non sembra, in questo l’aerospazio è in prima linea.
A cura di Valerio Bartolucci