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Disastro del Challenger

Space Transportation System Number 6, Orbiter Challenger, lifts off from Pad 39A carrying astronauts Paul J. Weitz, Koral J. Bobko, Donald H. Peterson and Dr. Story Musgrave.

Tra i membri dell’equipaggio del Challenger, nel gennaio del 1986, c’era Christa McAuliffe, insegnante della Concord High School del New Hampshire. In veste di prima partecipante del programma della NASA “Teacher in Space”, avrebbe dovuto tenere la prima lezione di scienze dallo Spazio. Avrebbe dovuto, perché a 73 secondi dal decollo, il Challenger si disintegrò in aria in diretta televisiva, causando la morte di tutti e 7 i membri dell’equipaggio. Ecco la storia di come Richard Feynman partecipò e giocò un ruolo decisivo nelle indagini dopo il disastro.

Feynman e la sua partecipazione alle indagini dopo il disastro

Confidando nella notevole capacità intuitiva di Richard Feynman, il capo dell’agenzia spaziale, William Graham, invitò il celebre fisico americano ad unirsi alla commissione incaricata di indagare sul disastro. Ben presto Feynman, il cui stile era nettamente in contrasto con quello del personale militare e civile che rappresentava il grosso della commissione, irritato dalla lentezza dei progressi nelle indagini, decise di procedere in modo autonomo.

Si rivolse direttamente ad un ingegnere e focalizzò la sua attenzione sugli O-ring, guarnizioni di gomma circolari utilizzate per sigillare le giunture del motore del razzo. Avendo compreso che la tendenza era quella di tenere nascosti potenziali errori o problemi, approfittando di un passaggio in TV della commissione (in cui si sarebbero dovute ripetere le inutili scoperte fatte sino a quel momento), l’11 febbraio 1986, in una stanza piena di giornalisti e di telecamere, Feynman prese la parola, chiedendo che gli si portasse un bicchiere d’acqua con molto ghiaccio.

La dimostrazione in diretta TV da parte di Richard Feynman

Richard Feynman

In realtà, non aveva sete e con un colpo di scena spettacolare tirò fuori dalla tasca un O-ring, lo fissò in un morsetto e lo immerse nel bicchiere di acqua ghiacciata. Sotto l’occhio vigile delle telecamere e dinanzi alle reazioni confuse della commissione, estrasse il pezzo di gomma dall’acqua e rimosse il morsetto. Invece di tornare immediatamente alla sua forma originaria, la gomma impiegò qualche secondo per riassestarsi, secondi che si sarebbero rivelati fatali sotto la pressione dei motori accesi. Ecco quello che era accaduto la mattina del 28 gennaio 1986.

La temperatura estremamente rigida di quella mattina del lancio (in controtendenza rispetto al clima solitamente mite della Florida, quel giorno il termometro scese sotto lo zero) accentuò alcuni errori di progettazione degli O-ring, ne ridusse drasticamente l’elasticità, compromettendone la resilienza e provocandone la rottura con conseguente fuoriuscita di gas bollenti.

La causa dell’esplosione del Challenger (scarsa reattività della gomma alle temperature glaciali per cui l’O-ring, privo di flessibilità, non aveva funzionato in modo adeguato da sigillo) era sotto gli occhi di tutti, diretta ed elementare. Proprio come bere un bicchiere d’acqua. Gelata.

Il disastro del Challenger

Frammento del veicolo spaziale, lo Space Shuttle Challenger, al Kennedy Space Center. Poche settimane fa è stato ritrovato un altro frammento nelle acque dell’Oceano Atlantico. Credits: Heidi Garcia – Close-up Engineering

28 Gennaio 1986, una data che spesso non viene ricordata in particolar modo, anche se proprio in questo giorno avvenne, in Florida, uno dei più grandi disastri della ricerca spaziale. Ancora oggi, dopo 36 (quasi 37) anni, non tutta la dinamica della vicenda è stata chiarita, soprattutto sul tragico destino dei membri dell’equipaggio. Tra loro era presente anche un’insegnante delle scuole elementari (la prima passeggera civile verso lo spazio), il cui scopo era fare delle lezioni di scienza in orbita all’interno dello Space Shuttle Challenger.

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