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Il più importante risultato scientifico delle missioni Apollo

Dal 1967 al 1972 il programma Apollo, iniziato con il tragico incendio in cabina dell’Apollo 1, ha svolto 16 missioni, di cui 6 con atterraggio sulla superficie lunare. In ognuna di esse gli astronauti hanno raccolto e riportato a Terra dei campioni di terreno. Gli studi effettuati su di essi hanno fornito indizi fondamentali sulla genesi della Luna, rendendoli il più importante risultato scientifico delle missioni Apollo.

Numerose teorie sono state avanzate sulla formazione della Luna: dalla cattura gravitazionale di un corpo estraneo, all’espulsione di massa dalla Terra a causa di intense velocità di rotazione. Tuttavia quasi tutte non riescono a giustificare ogni evidenza scientifica scoperta.

Apollo alla scoperta della Luna

Rispetto ai satelliti che orbitano intorno agli altri pianeti del sistema solare, la Luna è un corpo celeste davvero particolare. Ad esempio è incredibilmente grande in relazione al corpo intorno al quale orbita: la sua massa è 1/80 di quella della Terra. A confronto, Titano, la più grande luna di Saturno, ha una massa intorno a 1/4000 del gigante gassoso.
Gli impatti con rocce lunari subiti per miliardi di anni hanno demolito i primi metri di superficie lunare, lasciando un fitto strato di una fine polvere chiamata regolite, elemento fondamentale delle future strutture lunari.

La risposta a secoli di ipotesi si trova all’interno di una cassaforte della US Federal Reserve Bank, conservata presso il Johnson Space Center della NASA e rimasta chiusa per quasi mezzo secolo.
Al suo interno è custodita la più importante scoperta delle missioni Apollo: una collezione di oltre 300 kg che comprende il 70% delle rocce tipo presenti sulla superficie lunare.

Questi campioni, recuperati durante 6 delle missioni Apollo, rappresentano un elemento chiave per capire come la Luna si sia formata.
Neil Armstrong, atterrato nel Mare della Tranquillità il 20 Luglio 1969, fu il primo astronauta a riportare un campione di regolite a Terra. L’analisi chimica del campione mostrò la presenza di frammenti di anortosite, un tipo di roccia magmatica che compone gran parte della crosta terrestre.

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Ryan Zeigler, responsabile campioni Apollo, davanti ad un dei box caricato da azoto per conservare i campioni raccolti durante Apollo 15, 16 e 17
AP Photo/Michael Wyke

L’anortosite è una roccia che si genera da colate laviche che solidificano e la spingono in superficie, perché molto meno densa del magma.
Gli scienziati della NASA hanno calcolato che per giustificare la presenza di così tanta anortosite in superficie, la Luna avrebbe dovuto essere totalmente coperta da un mare di magma profondo migliaia di chilometri. Poiché questo evento sarebbe risultato decisamente poco probabile, si avanzò l’ipotesi di formazione a seguito di un gigantesco impatto.

La teoria di un impatto nasce come risultato dalle missioni Apollo

Sebbene questa teoria possa sembrare assurda, è l’unica che riesce a giustificare molti aspetti caratteristici del satellite. Tra di essi la causa di un nucleo cosi piccolo, la presenza di materiali diffusi anche sulla terra ed il lento ma costante allontanamento dal nostro pianeta.
Si suppone che circa 4.5 miliardi di anni fa un corpo grande quanto Marte, nominato Theia, si schiantò con una neonata Terra, generando una enorme quantità di detriti che, nel tempo, hanno condensato formando il nostro satellite.

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Descrizione impatto Theia-Terra

La missione Apollo 15 aveva tra gli obiettivi primari la ricerca della Genesis Rock, campione che analizzato diede ancora più credito a questa teoria. Questo campione, avvalorando enormemente la teoria, rappresenta il risultato scientifico più importante delle missioni Apollo.

Molti modelli di genesi lunare sono stati studiati ed altri ancora sono oggetto di studio. Tra i più accurati rimane un modello sviluppato alcuni anni fa dal Southwest Research Institute (SwRI) che descrive un impatto a bassa velocità tra due corpi che hanno massa pari al 45% e 55% di quella della Terra.

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Simulazione impatto Theia-Terra da 0.1 a 26.9 ore dopo lo scontro
Credits: Southwest Research Center