Hercules N1, storia di un progetto impossibile
A cura di Lorenzo Barbato
23 Novembre 1972, ore 9:11:52, dalla rampa di lancio 110 del cosmodromo di Baikonur, il gigantesco razzo vettore N1 decolla con a bordo un modello del modulo lunare LOK e con esso anche tutte le speranze, ormai esigue, del popolo sovietico per la conquista della Luna.
Tuttavia bastarono solo 107 secondi per distruggere il sogno. Infatti il razzo, poco prima del distacco del primo stadio, andò distrutto. La causa fu l’esplosione di una pompa di ossigeno liquido dovuta ad una sovrapressione nei condotti generata da un precoce spegnimento dei 6 motori interni del primo stadio. Questo fallimento, insieme ai 3 precedenti, costrinse il Politburo alla cancellazione di uno dei progetti ingegneristici più coraggiosi e complessi di tutti i tempi.
Il razzo N1
I numeri del vettore sovietico, anche se non da record, sono da capogiro. Infatti il razzo, diviso in 5 stadi, era alto 105 metri con un diametro massimo di circa 17 metri e una massa al decollo di ben 2.735 tonnellate. Era un razzo enorme ed era progettato per trasportare 3 cosmonauti sulla Luna, permettendone poi anche il rientro sulla Terra.
Blocco A
Il primo stadio dell’Hercules, denominato blocco A, di forma simile ad un tronco di cono, era alto 30 metri, aveva un diametro alla base di 17 metri che diminuiva fino ad una larghezza in testa di 10 metri. La massa del primo stadio, a pieno carico, era di ben 1.870 tonnellate. Da solo costituiva i due terzi della massa complessiva! Il propellente stivato costituiva la maggior parte del peso, infatti era possibile immagazzinare fino a 1.690 tonnellate tra ossigeno liquido e RP-1 (una cherosene molto raffinato) che andavano ad alimentare i ben 30 motori NK-15 a combustione stadiata disposti radialmente su 2 corone, 24 su quella esterna e 6 in quella interna, lasciando uno spazio vuoto tra le 2 corone di motori permettendo il passaggio di aria così da migliorare il raffreddamento degli stessi. Questa configurazione generava una spinata totale di circa 45.000 KN, bruciando tutto il propellente in soli 113 secondi.
Blocco B
Una volta esaurito il propellente del primo stadio, questo veniva sganciato, e fatto partire il secondo, denominato blocco B. In verità nessuna delle 4 missioni è mai arrivata a questo punto. La struttura di questo stadio è molto simile a quella del primo. L’altezza era di 20.5 metri, il diametro alla base coincideva con quello in testa del primo stadio e diminuiva fino ad una larghezza di 6.8 metri. Era dotato di 8 motori NK-15V, ovvero motori NK-15 modificati per le elevate altitudini, disposti su un unico anello che generavano una spinta complessiva di 14.000 KN bruciando circa 500 tonnellate di propellente per un tempo di circa 120 secondi.
Blocco W
Sganciato il secondo stadio si sarebbe attivato il blocco W, anche questo simile agli altri 2 come geometria e costruzione. Infatti i 4 motori NK-9V, una versione meno potente degli NK-15V, sono ancora una volta disposti in modo radiale. Questo stadio avrebbe operato al di fuori dell’atmosfera, dove i valori di spinta richiesti sono ben più bassi di quelli necessari in atmosfera. Infatti risultava decisamente più piccolo in dimensione e peso rispetto i precedenti blocchi. Era alto poco più di 11 metri e aveva un diametro in testa di circa 5.5 metri, produceva una spinta di 1600 KN ma per un tempo molto più elevato, ben 375 secondi, garantendo il tempo necessario per effettuare eventuali manovre.
Blocco G
Dal punto di vista organizzativo il quarto stadio non apparteneva strettamente al razzo N1, poiché il blocco G avrebbe trasportato il carico utile dall’orbita bassa intorno alla Terra fino alla Luna. A tal proposito si può notare anche come sia diverso dal punto di vista costruttivo rispetto ai precedenti stadi. La forma era cilindrica, con un altezza di 9 metri e un diametro di 4.1 metri. A differenza degli altri stadi aveva un solo motore NK-19, simile al NK-9V, ma in posizione centrale. Aveva una capienza di 55 tonnellate che gli consentivano una durata della combustione di circa 440 secondi.
Blocco D
Il blocco D era lo stadio di frenata per l’orbita lunare, per la fase di discesa del lander LKO ed era anche destinato a riportare i cosmonauti sulla Terra. Questo stadio era propulso da un motore RD-58 riaccendibile, ancora alimentato da ossigeno liquido e RP-1, che forniva una spinta di 83 KN con un tempo di combustione di circa 600 secondi sfruttando le circa 14.5 tonnellate di propellente immagazzinate nel blocco di forma cilindrica che aveva un’ altezza di 5.7 metri e un diametro di 2.9 metri. Questo era l’unico blocco che era certificato per il volo umano.
Il perché del fallimento
Il fallimento di un progetto come il razzo N1 può essere sicuramente dipeso dall’enorme dimensione del razzo e di tutta la complessità che ne deriva. Tuttavia le dimensioni, seppur considerate enormi anche per la tecnologia odierna, non erano l’unico problema. L’idea del vettore lunare N1 nasce all’inizi degli anni 60 nella mente di Sergej Korolev, considerato uno dei più brillanti ingegneri russi di quel tempo. Korolev era deciso ad utilizzare la tecnologia dei motori LOX-RP-1, ma non esistendone di così grandi, il razzo dovette essere dotato di un elevato numero di propulsori, 30 solo nel primo stadio! Questa scelta ingegneristica aumentò di conseguenza la complessità costruttiva e di assemblaggio ma questo sopratutto causò enormi difficoltà nel controllo qualità dei pezzi, fondamentale in ambito aerospaziale a causa dei bassissimi margini di errore consentiti. Risulta doveroso sottolineare che Korolev morì nel 1966 durante un’operazione nel tentativo di asportare un tumore maglino. La morte dell’ingegnere a capo di tutta l’operazione rallentò moltissimo un progetto che già sembrava disperato e che finì per tramutarsi in un’impresa impossibile.
Cos’è rimasto oggi?
Dei razzi vettori N1 non c’è più traccia, questo perché ne fu ordinato lo smantellamento di tutti i vettori in costruzione. Pensate che alcune parti sono state utilizzate anche come ricoveri per maiali. Fortunatamente però un dirigente, contravvenendo agli ordini, prese i motori e li stoccò in un magazzino. Dopo circa venti anni uno dei motori fu portato negli USA e provato al banco, dove furono confermate le ottime prestazioni. Dei circa 150 motori accantonati, la Russia vendette, verso al fine degli anni novanta, 36 motori alla Aerojet. La compagnia acquistò anche la licenza per la produzione di nuovi motori, rinominandoli AJ26-58, AJ26-59 e AJ26-62. Questo avvenimento conferma, ancora una volta, l’elevata tecnologia e capacità costruttiva dei motori a propellenti liquidi in terra sovietica.