La storia di Explorer 1, il primo satellite messo in orbita dagli USA, si intreccia profondamente con la storia della seconda metà del secolo scorso. Un periodo di tensioni internazionali, prove di forza tra superpotenze e guerra fredda. Un periodo però capace di produrre grandi innovazioni tecnologiche, spinte dalla concorrenza tra i due giganti dell’epoca, gli Stati Uniti e l’URSS. A beneficiare di questo scontro a distanza e del desiderio di prevalere sull’avversario fu sicuramente il settore aerospaziale, che conobbe anni di evoluzione repentina, budget stellari e aspettative enormi.
La cosiddetta corsa allo spazio vedeva affrontarsi USA e URSS per il predominio dell’ultima frontiera dell’esplorazione umana, lo spazio. Tutti conoscono l’epilogo di questa competizione: l’allunaggio da parte della NASA nel 1969 e in altre 5 occasioni negli anni successivi, in contrapposizione ai continui fallimenti sovietici di portare cosmonauti sul nostro satellite. Questo decretò la vittoria degli USA nella competizione spaziale, ma forse pochi conoscono l’origine della corsa allo spazio.
Forse non tutti sanno che, nei primi anni, l’esplorazione spaziale era appannaggio dei sovietici. Tutti i primi record spaziali infatti vennero collezionati dall’URSS: il primo satellite in orbita, lo Sputnik 1, il primo animale in orbita, il cane Laika con lo Sputnik 2, il primo uomo nello spazio, Yuri Gagarin ecc.
Nel 1956 sia Stati Uniti che URSS annunciarono al mondo l’intenzione di mandare in orbita un satellite, ma i sovietici furono più abili nel costruire un oggetto funzionante già nell’ottobre del 1957, lo Sputnik 1, e renderlo operativo in orbita per tre settimane, prima che le batterie si scaricassero. Per il mondo intero, e specialmente l’Occidente, fu uno shock. Negli Stati Uniti il terrore che il grande nemico potesse spiarli indisturbato dall’alto, iniziò a diffondersi nella popolazione. Il Presidente Eisenhower decise che era il momento di accelerare i tempi e rispondere ad ogni costo alla minaccia sovietica.
Il Progetto Orbiter, prematuramente abbandonato, venne rimesso in piedi e rinominato Progetto Explorer. Esso prevedeva la realizzazione di un satellite, l’Explorer 1, da parte del Jet Propulsion Laboratory (JPL) e la preparazione del lanciatore modificando un razzo Jupiter-C per fare in modo che fosse in grado di ospitare il satellite. Il lavoro frenetico dei centri di ricerca riuscì nell’incredibile impresa di preparare l’Explorer 1 e il razzo lanciatore modificato, chiamato Juno I, in soli 84 giorni. Prima che il lavoro fosse definitivamente ultimato però, il 3 novembre 1957 l’URSS riuscì a lanciare con successo lo Sputnik 2, collezionando un ulteriore record.
La forma di Explorer 1 era molto diversa dagli attuali satelliti. Si presentava, infatti, con un corpo lungo e affusolato di circa 2 metri di lunghezza e 17 cm di diametro, più simile ad un razzo in miniatura che ai satelliti squadrati che conosciamo oggi. La sua massa era di 13,37 Kg dei quali 8,3 Kg di strumentazione.
Una volta in orbita avrebbe ruotato alla velocità di 750 giri al minuto attorno al proprio asse. Gli ingegneri del JPL studiarono il moto, la traiettoria e l’inclinazione che il satellite avrebbe avuto in orbita per scegliere la colorazione dell’involucro della sezione contenente gli strumenti. Fu scelto di dipingerla con strette strisce longitudinali bianche, in modo da mantenere il più possibile sotto controllo la temperatura del satellite.
Progettato per essere il più compatto, leggero e affidabile possibile, l’Explorer 1 vantava un carico utile o payload di tutto rispetto. Le strumentazioni erano state progettate e costruite dall’Università dell’Iowa, sotto la supervisione del Dottor James Van Allen e consistevano in:
Tutti i dati erano trasmessi a terra in diretta; i ricercatori infatti non erano riusciti a modificare in tempo per il lancio un registratore di dati. Tutte le informazioni raccolte dall’Explorer 1 erano inviate a terra grazie alle due antenne interne in fibra di vetro e all’antenna turnstile esterna, costituita da 4 fasce flessibili, che si dispiegavano nello spazio grazie alla rotazione del satellite attorno al proprio asse.
Il funzionamento della strumentazione era garantito dalle batterie al mercurio che costituivano circa il 40% del peso dell’intero payload. Queste fornirono energia a pieno regime per 31 giorni, a basso regime per 105.
Finalmente il 31 gennaio 1958 alle ore 22:48 locali, dalla rampa di lancio di Cape Canaveral in Florida (oggi J. F. Kennedy Space Center), il razzo Juno I decollò con successo, portando a bordo il prezioso carico.
Nella prima fase tutto andò come previsto, ma dopo 90 minuti dal lancio, la Goldstone Tracking Station, una stazione satellitare terrestre nel deserto del Mojave, non fu in grado di confermare il successo della messa in orbita di Explorer 1, come era invece previsto dal piano di volo. Questo accadde perché l’orbita del satellite era maggiore del previsto.
Solamente dopo circa 3 ore dal lancio, verso l’1:30 di mattina, i responsabili della missione annunciarono in conferenza stampa il successo della messa in orbita di Explorer 1, il primo satellite USA, sancendo ufficialmente l’entrata degli Stati Uniti nella competizione spaziale.
Il razzo Juno I pose Explorer 1 in un’orbita con perigeo di 358 km e apogeo di 2550 km, con un periodo di rotazione attorno alla Terra di 114 minuti circa. Da qui il satellite inviò dati a terra fino a quando le batterie a bordo si scaricarono, ovvero il 23 maggio 1958. Rimase ancora in orbita per 12 anni, “cadendo” e distruggendosi nell’atmosfera terrestre solamente il 31 maggio 1970, dopo più di 58.000 orbite complete.
I maggiori risultati scientifici ottenuti grazie al satellite Explorer 1 riguardano sicuramente la scoperta delle Fasce di Van Allen. Il contatore Geiger per la rilevazione dei raggi cosmici a bordo del satellite a volte riportava 30 conteggi al secondo, come previsto; molte altre volte invece, il conteggio scendeva completamente a zero. Il Dr. Van Allen e i suoi ricercatori notarono che il conteggio scendeva a zero quando Explorer 1 si trovava al di sopra dei 2000 km sopra il Sud America; quando l’orbita scendeva sotto i 500 km il conteggio riportava i valori previsti.
Elaborando questi dati e con quelli aggiuntivi trasmessi dal satellite Explorer 3, Van Allen notò che quando il conteggio era 0, in realtà lo strumento era saturato perché le radiazioni erano fuori scala. Questo portò alla scoperta delle cosiddette Fasce di Van Allen, ovvero una fascia di particelle cariche, intrappolate nello spazio intorno al nostro pianeta dal campo magnetico terrestre.
Il programma Explorer, che aveva segnato con Explorer 1 l’ingresso degli Stati Uniti nella corsa allo spazio, continua ancora oggi, con più di 90 lanci all’attivo. Gli obiettivi di questo programma gestito dalla NASA sono ancora oggi quelli di fornire dati spaziali e dare la possibilità ai ricercatori di studiare in modo approfondito lo spazio.