Quante volte si sente parlare di resistenza aerodinamica, coefficiente di penetrazione aerodinamico, forme aerodinamiche, ecc. Ma che cos’è, fisicamente, la resistenza aerodinamica? È unica? O è solo il risultato di più effetti? È possibile controllarla? Per rispondere a queste domande è necessario fare un viaggio attraverso le strutture del moto del fluido, scavando veramente a fondo.
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’industria ha subito una notevole accelerata dal momento che la produzione di armi, veicoli e velivoli militari cessò. Molte aziende, durante la guerra, si erano riconvertite a tale scopo, ma, una volta finito il tutto, la loro produzione non poteva fermarsi. Di conseguenza, nel secondo dopoguerra, si convertì l’idea di produrre armamenti sempre più potenti nella produzione di ogni tipo di macchina.
Con questa continua evoluzione tecnologica, l’uomo si trovò ad affrontare un secolare problema: l’inquinamento. La componente aerodinamica, responsabile dei consumi, è la resistenza: oggigiorno si preferisce chiamarlo Cx o coefficiente di penetrazione aerodinamica, ma la sostanza è la stessa.
Quante volte viaggiando in automobile ci è capitato di mettere la mano fuori dal finestrino e non riuscire a tenerla ferma, o sentito il rumore dell’aria sull’autovettura? Un corpo in movimento in un fluido genera una forza aerodinamica, dovuta movimento imposto da esso sul fluido stesso (terza legge di Newton). Tralasciando i sistemi di riferimento, si possono definire le due componenti principali di tale forza:
Il calcolo di queste due forze non è per nulla banale: vi sono molteplici teorie e metodi pratici per calcolarle, tuttavia ci si focalizzerà sulla seconda. Osservando la componente di resistenza, possiamo a sua volta, dividerla in più contributi:
Sembra abbastanza evidente che il contributo viscoso sia quello predominante. Per correttezza va menzionato il contributo indotto: esso può essere ridotto tramite accorgimenti in fase di design, che sono oggetto di studio da decenni e siamo già riusciti a minimizzarlo abbastanza.
Consideriamo un fluido che scorre all’interno di un condotto: inizialmente il flusso sarà laminare, ma per la maggior parte sarà turbolento. Un flusso è laminare quando le linee di corrente sono parallele: se prendiamo due particelle di fluido, esse non si incontreranno mai; viceversa, se esso è turbolento, avverrà un rimescolamento di esse. Per fare un esempio: immaginiamo di avere un condotto trasparente con acqua che scorre e una pipetta che contiene inchiostro. Se il flusso è laminare, l’inchiostro non si distribuisce in tutto il condotto, ma solo lungo le linee di corrente in cui è stato diffuso; se turbolento, bastano poco tempo/spazio affinché si mescoli.
I flussi turbolenti sono molto caotici e, di conseguenza, molto complessi e difficili da predire: la turbolenza è considerata una delle ultime grandi sfide dell’ingegneria. È interessante pensare che la “utilizziamo” ogni giorno per volare, guidare, scaldarci, raffreddarci, cucinare, respirare, … tuttavia vi sono ancora molti punti oscuri e non vi sono teorie complete che spieghino in modo chiaro ogni fenomeno. Ma cosa rende la turbolenza così complessa? È necessario introdurre il concetto di strutture e di scale del moto: una struttura turbolenta è una regione di fluido che si comporta in maniera simile.
Ad esempio, se pensiamo a un urgano, tutte le particelle che si trovano nella “tromba d’aria” fanno parte della stessa struttura. Però, se andiamo a fare uno zoom nell’uragano, scopriremo che vi sono zone più piccole che hanno una propria velocità di rotazione: spesso vi sono video di urgano che scaraventano oggetti in tutte le direzioni, dal momento che dipende da che zona di esso stiamo considerando. Aumentando lo zoom la situazione è la stessa, vi saranno delle regioni in cui il movimento del fluido si differenzia e così via.
Sarà sempre possibile trovare delle strutture più piccole, ovvero delle regioni in cui il fluido avrà un comportamento a sé stante, che si “disinteressano” quasi completamente di quelle più grandi. Tutte queste diverse strutture che si ripetono, si chiamano scale del moto. Nella turbolenza non è possibile identificare un comportamento unico per tutte le particelle: è come una “matrioska” che ci porta fino alle scale più piccole del moto. Per utilizzare un termine più adatto, si dice che la turbolenza ha una natura “frattale”: le strutture turbolente si ripetono dalle scale più grandi del moto a quelle più piccole.
Ovviamente le scale della turbolenza non possono ripetersi all’infinito: esse si interrompono alla cosiddetta scala dissipativa; oltre questa soglia, l’energia si dissipa tramite la viscosità, ovvero a livello molecolare e non si parla più di flusso. Nel viaggio dalle scale maggiori a quelle minori, l’energia non viene dissipata, viene solo trasferita: l’impeto di un uragano si trasferisce a terra tramite le scale minori.
Considerando un flusso turbolento, per indagare il meccanismo di interfaccia fra il fluido e l’oggetto in questione (nel caso del condotto, la sua parete) ci si deve interrogare sulla natura della scala viscosa: in particolare bisogna individuare le più piccole strutture del moto. Non esiste una vera definizione di struttura turbolenta, se non quella di una regione in cui il comportamento del fluido è il medesimo, altresì definita come una zona in cui il flusso è “coerente”; una struttura coerente è, semplicemente, un eddy. Ora che ha un nome, è necessaria una sua presentazione:
Il modo in cui gli eddies si interfacciano con la parete determina l’energia dissipata e, di conseguenza, la resistenza aerodinamica viscosa. Considerando un flusso in un condotto, è possibile individuare i cosiddetti vortici longitudinali:
La resistenza viscosa dipende, quindi, dal modo in cui le più piccole strutture turbolente interagiscono con l’oggetto che vogliamo progettare: auto, aerei, moto, condotti dell’aria condizionata, vasi sanguigni (sì anche loro sono “vittime” degli eddies), pale eoliche, ecc. Tutti i metodi utilizzati per controllare il flusso (Flow Control) hanno l’obiettivo di ottimizzare questa interazione. Tra i molti metodi esistenti, ce n’è uno che si distingue per la sua semplicità realizzativa e i costi contenuti: le Riblets; si tratta di un metodo passivo, ovvero non si utilizza energia per diminuire la resistenza viscosa.
L’idea è quella di far perdere energia ai vortici più vicini a parete, in modo da sottrarre energia alla dissipazione viscosa, tramite delle strutture prismatiche a punta, posizionate parallelamente alla direzione del flusso sulla superficie del condotto. Il meccanismo di funzionamento di questa tecnica non è di invenzione umana, ma è già presente in natura: la microstruttura della pelle degli squali è molto simile alle Riblets e ciò permette loro di avere una minore resistenza idrodinamica e di raggiungere velocità più elevate.
Nel paragrafo precedente è stato detto che le strutture del moto turbolento si ripetono dalle scale più grandi a quelle più piccole: questa tecnica si basa sullo studio dei vortici più piccoli, ovvero quelli responsabili della dissipazione viscosa. In particolare, riferendoci sempre alla figura soprastante, l’aerea Ag deve essere tale da sferzare l’energia dei vortici, com’è possibile notare nell’immagine sottostante.
Come già anticipato, lo studio deve essere molto meticoloso, per evitare di incorrere in un fenomeno che potrebbe aumentare la resistenza, anziché diminuirla: il vortice viene inglobato nella Riblet, ovvero il diametro del vortice risulta essere minore della distanza fra due punte.
Dal punto di vista teorico funzionano (e anche bene): le misurazioni effettuate in fase sperimentale mostrano una riduzione della resistenza aerodinamica ben oltre il 20% e, tutto sommato, non sembrano una tecnica molto complessa da costruire e utilizzare. Una riduzione del 20% della resistenza viscosa porta a una riduzione del 4-5% di quella totale: ragionata nel totale del volo aereo, è un’enormità!
Ma allora: perché non vengono utilizzate sugli aerei? Sulle auto da Formula 1? Sugli scafi delle navi? Sulle nostre automobili? Spesso quando si passa dal punto di vista teorico a quello pratico le cose cambiano. I motivi sono molteplici e meritano di essere analizzati:
Concludendo, questa tecnica promette molto bene da un punto di vista teorico, ma, all’atto pratico, risulta essere di applicazione molto più complessa; nonostante ciò, la ricerca procede dal momento che la strada è quella giusta. Tutti noi sappiamo come finì la battaglia fra Davide e Golia: un piccolo eddy è ancora in grado di ingannare e avere la meglio sull’uomo!
A cura di Riccardo Musazzi.