È il 18 luglio 1980, sono le 11 ed è una tranquilla mattina d’estate a Castelsilano, in provincia di Crotone. Lì, a Timpa delle Magare, giace supino privo di vita il corpo di Ezzedin Fadah El Khalil, in uniforme da pilota dell’aeronautica militare libica, accanto al suo MiG-23, spezzato in 3 tronconi per l’impatto col suolo. Il velivolo è privo di armamenti ed evidenti sono, tutto intorno, i segni dell’incendio probabilmente provocato dal carburante rimanente a bordo al momento dell’impatto. Non si capisce bene cosa ci faccia lì quel velivolo dell’aeronautica militare libica, ma a giudicare dai tanti fori nella carlinga, è presumibile che sia stato abbattuto da un altro velivolo durante una battaglia aerea nei cieli del sud Italia.
Sembrerebbe apparentemente tutto nella norma: un MiG-23 libico con atteggiamento ostile, entra nello spazio aereo italiano e non rispondendo alle indicazioni dei caccia italiani alzatisi in volo, viene abbattuto. Secondo l’autopsia eseguita sul corpo del pilota, in uno stato avanzato di decomposizione, la morte è fatta risalire a circa 20 giorni prima. Ciò è abbastanza strano poiché il velivolo, secondo un fascicolo dei rilievi tecnici redatto dalla Legione Carabinieri di Catanzaro, la stessa mattina del 18 Luglio molti abitanti del luogo osservano un velivolo militare volare a bassa quota sopra le loro teste e dopo poco scomparire. Dopo aver sentito un boato ed alla vista di fumo proveniente da una zona limitrofa, si recano nel luogo dell’incendio, dove i vigili del fuoco cercano di domare le fiamme.
Questo report dei Carabinieri pertanto risulta fortemente in disaccordo con gli esami autoptici eseguiti sul corpo del pilota libico, i quali fanno risalire la data dell’incidente ad una ventina di giorni prima. Cosa avrebbe spinto l’Arma a postdatare la data dell’incidente? Questo intervallo di tempo ci riconduce ad un altro incidente aereo, quello accaduto il 27 Giugno dello stesso anno. Quel giorno, un DC-9 della compagnia italiana Itavia in volo da Bologna verso Palermo, nei pressi di Ustica precipitò in circostanze non molto chiare. Alcuni parlarono di cedimento strutturale, altri di bomba a bordo, ma la tesi che piano piano si fa strada è quella di abbattimento in volo tramite missile aria-aria. Ecco che quel misterioso ritrovamento del MiG-23 libico il 18 Luglio, viene ricollegato al disastro aereo nel tratto di mare a poco più di 60 miglia da Ustica.
Ci sono 81 passeggeri a bordo e, a causa del ritardo di 113 minuti, il volo IH870 decolla alle 20:08. La rotta assegnata è quella lungo l’aerovia “Ambra 13” e il volo prosegue senza nessun problema. Tuttavia c’è qualcosa che sorprende i piloti quella sera: tutti i radiofari degli aeroporti da Firenze in poi sono spenti, anche il radiofaro di Ponza non funziona e lo conferma la centrale radar di Ciampino che risulta l’unica in funzione.
Quest’ultima assegna il codice 1136 al transponder del DC-9 Itavia. A bordo i toni sono calmi e non vi è alcun segno di preoccupazione da parte dei piloti. Alle ore 20:26 il radar di Roma Ciampino accusa un malfunzionamento e lo stesso accade per il radar vicino Ferrara. Il transponder del velivolo Itavia diventa oggetto non identificato, poi di nuovo identificato con il codice 1136. Al DC-9 viene richiesto di identificarsi nuovamente.
-“Scusi, che prua avete?”- chiede Ciampino.
-“Abbiamo prua su Grosseto,”- risponde il comandante Domenico Gatti.
-“Adesso vedo che sta rientrando. Quindi diciamo che praticamente è riallineato. Mantenga questa prua.”
-“Noi non ci siamo mossi”- risponde il comandante Gatti. Poi, rivolto al copilota domanda – “ma che dice, questo?”
Sono momenti di leggera confusione che però sembra rientrare. Alle ore 20:50, il comandante Gatti dà l’ultima comunicazione a Roma Ciampino, poi parla con tono rilassato ai passeggeri e li avvisa che stanno per atterrare a Palermo. Alle ore 20:58 vicino la traccia radar dell’Itavia, già al limite del range del radar di Ciampino, appare per un istante una seconda traccia. Dopo 29 secondi ne appare un’altra ancora. Sono segnali deboli che scompaiono immediatamente. Esattamente un minuto dopo la traccia 1136 scompare dai radar.
Sono attimi concitati, la traccia 1136 non viene vista da nessun’altra stazione radar, né da quelle militari, né da quelle delle basi NATO. A bordo del DC-9 nessuno risponde e l’ipotesi che sia precipitato nel Mar Tirreno si fa sempre più concreta. Purtroppo il buio della notte non facilita le ricerche e nonostante i seppur pochi mezzi di soccorso siano già al lavoro intorno alle 23:30, non si riesce a trovare nessun relitto. Bisogna aspettare il giorno dopo quando un elicottero della Marina militare trova pochi rottami e alcuni corpi che galleggiano attorno ad un’enorme chiazza di carburante.
C’è voglia di sapere cosa sia successo e si comincia con le analisi dei possibili scenari che hanno portato alla sciagura aerea. Di solito è l’aeromobile stesso a “dover parlare”, ma purtroppo, la maggior parte del velivolo si è inabissata in una zona del Tirreno in cui la profondità è di circa 3700 metri. Ciò rende molto complesse e costose le operazioni di localizzazione e recupero e bisognerà aspettare 7 anni, nel 1987, per poter vedere riaffiorare la carcassa del DC-9 e poterla analizzare.
Un’ulteriore campagna nel 1991 consente di riportare in superficie circa il 96% del relitto, che viene ricomposto in un hangar dell’aeroporto di Pratica di Mare, dove rimane a disposizione per le indagini della magistratura fino al 5 giugno 2006, data in cui viene trasferito e sistemato nel Museo della Memoria, situato appositamente a Bologna.
Le prime ipotesi che vennero prospettate furono:
La prima ipotesi, nonostante fosse fortemente caldeggiata all’inizio, venne presto eliminata dato che nel relitto non vi erano segni evidenti in tal senso. Allo stesso modo per la seconda ipotesi, nonostante dai periti tecnici fossero state trovate delle tracce di esplosivi T4 e TNT, solitamente presenti nelle miscele di ordigni esplosivi, venne scartata anche grazie all’analisi condotta sugli oblò che, malgrado la presunta esplosione a bordo, in gran numero rimasero integri.
La terza e ultima ipotesi fu sicuramente la più misteriosa, che nel tempo sarà la causa di un forte intrigo internazionale. Perché un velivolo militare? Quel tratto di mare sicuramente era utilizzato per esercitazioni NATO, ma dai tracciati radar raccolti dalle indagini successive, non fu trovata nessuna anomalia, né tantomeno la presenza di uno o più velivoli militari in quello spazio aereo.
Tuttavia alle ore 20:24, all’altezza di Firenze-Peretola, due F-104 del 4º Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana, di ritorno da una missione di addestramento, mentre effettuavano l’avvicinamento alla base aerea di Grosseto si trovarono in prossimità del DC-9 Itavia. Uno era un F-104 monoposto, con l’allievo Aldo Giannelli ai comandi, mentre l’altro, un TF 104 G biposto, ospitava due istruttori, i comandanti Mario Naldini e Ivo Nutarelli.
Il biposto dei 2 istruttori, mentre era ancora in prossimità dell’aereo civile, emise un segnale di allarme generale alla Difesa Aerea: codice 73, indice di “emergenza generale” e non “emergenza velivolo”. Questo segnale di allarme venne ricevuto dai controllori della base aerea di Grosseto per ben tre volte, a conferma inequivocabile dell’emergenza. Non seguì nessun messaggio via radio. Tuttavia, nonostante fossero stati registrati questi 3 segnali di emergenza, né l’Aeronautica Militare italiana né la NATO chiarirono mai le ragioni di quell’allarme.
Durante la giornata del 27 giugno 1980 era segnata nei registri, dalle 10:30 alle 15:00, l’esercitazione aerea USA “Patricia”, ed era poi in corso un’esercitazione italiana della durata di ventiquattro ore a Capo Teulada. Inoltre, come già detto, la sera del 27 Giugno al volo IH870, era stato assegnato il codice transponder “1136” ma fu accertato in seguito, che nello stesso momento, vi fossero altri tre velivoli con lo stesso codice transponder attorno al DC-9. Questo comportamento fu sicuramente messo in atto dai velivoli ancora oggi non del tutto “identificati con certezza”, per non farsi individuare dai radar e nascondersi sotto l’impronta radar del velivolo civile.
Non finisce qui. Durante quella sera, tra le ore 20:00 e le 24:00, furono notati in volo diversi velivoli militari non appartenenti all’Aeronautica Militare Italiana, partiti dalla base NATO di Sigonella:
Sembra infatti che in quei giorni, e anche quella sera, gli F-111 facevano parte di un ponte aereo in atto ormai da diversi giorni, che aveva lo scopo di stringere una cooperazione con l’Egitto e intimorire la Libia. Tra quest’ultima e gli Stati Uniti infatti, vigeva uno stato di crisi sin dal 1973, scaturito dall’azione unilaterale libica di estendere le proprie acque territoriali. Ciò aveva spinto gli Stati Uniti a condurre operazioni coercitive nei confronti della Libia, anche in conseguenza alla cosiddetta “Line of Death” (linea della morte), che se oltrepassata da velivoli della aeronautica libica avrebbe avuto come conseguenza un attacco immediato da parte delle forze statunitensi presenti nel golfo della Sirte.
Le tensioni tra Libia e Stati Uniti si inasprirono sempre più, e le forze americane presenti nel golfo andarono decisamente aumentando fino al 1981, anno in cui vi fu il primo scontro aereo in cui 2 caccia libici (Sukhoi Su-22 Fitter) furono abbattuti.
In quel periodo, tuttavia, succedeva spesso che velivoli militari libici penetrassero lo spazio aereo italiano. Tali “incursioni” erano dovute alla necessità da parte dell’Aeronautica Militare Libica di trasferire i propri MiG e Sukhoi di fabbricazione sovietica (presenti in gran quantità nell’aviazione del colonnello Gheddafi) da e per la Jugoslavia, in cui veniva assicurata la loro manutenzione. Tali trasferimenti, erano coperti dal governo italiano, fortemente dipendente dalla Libia dal punto di vista economico, nonostante la violazione della suddetta “linea della morte”.
Per non allertare le difese NATO e quindi gli Stati Uniti, loro alleati, li mascherava con piani di volo autorizzati e, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, gli aerei militari libici si mimetizzavano nella rete radar, passando “inosservati”. Per tale motivo si affermò successivamente che in quel periodo storico, l’Italia avesse “una moglie”, la NATO, ma anche “un’amante”, la Libia.
Il SISMI, il Servizio Segreto Italiano, all’epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito, avrebbe infatti avvertito il governo libico di un possibile attacco sul mar Tirreno ai danni dell’aereo sul quale Gheddafi si trovava per recarsi probabilmente in un paese del blocco sovietico. Sembra che i mandanti di questo attentato fossero francesi e statunitensi. In seguito alla soffiata del SISMI quindi, l’aereo che trasportava Gheddafi, giunto nei pressi di Malta, tornò indietro, mentre altri velivoli dell’Aeronautica Militare Libica che lo scortavano, proseguirono lungo quella rotta.
Verosimilmente Gheddafi, fortemente risentito da questo “mancato attentato”, avrebbe fatto continuare il volo sopra l’Italia ai velivoli militari che lo scortavano, in modo tale da provocare la NATO e quindi gli statunitensi. Quei velivoli militari, presumibilmente due MiG-23, così si trovarono intrusi in uno spazio aereo in cui non dovevano assolutamente esserci.
Tuttavia questa volta, al contrario delle altre, la situazione era molto differente. In quello spazio aereo vi era già un ampio dispiegamento di forze militari aeree e dopo essere stati intercettati sia dall’F-104 di Nutarelli e Naldini, sia da numerose stazioni radar presenti sul territorio italiano, furono intercettati dai radar NATO, in particolare dai radar della USS Saratoga CV-60 della US Navy.
Secondo i report ufficiali, quella sera la super-portaerei si trovava in rada nel golfo di Napoli e a bordo erano in corso lavori di manutenzione dei radar, anche se uno di essi risultava comunque ancora in funzione. Questo, come affermato dall’ammiraglio al comando, James Flatley, aveva registrato “un traffico aereo molto sostenuto nell’area a sud di Napoli, in cui si videro passare moltissimi aerei”. Nonostante questa testimonianza, poi ritrattata dallo stesso Flatley, i registri radar della Saratoga andarono inspiegabilmente perduti.
È inevitabile comunque poter constatare come la capacità della portaerei fosse tra 75 e 90 mezzi aerei.
Brian Sandlin, all’epoca marinaio della US Navy in forza sulla Saratoga, confermò che quella sera il comandante della super-portaerei informava l’equipaggio che dei McDonnell Douglas F-4 Phantom II decollati dalla Saratoga avevano dovuto abbattere due MiG-23 libici. Sandlin dichiarò inoltre che quella sera la portaerei, al contrario di quanto si affermasse ufficialmente, fosse al largo e che oltre metà dei caccia a bordo fosse decollato per una prova di forza contro la Libia. Inoltre, due di questi caccia, aveva notato il marinaio, erano rientrati senza armamenti presumibilmente perché avevano abbattuto i 2 velivoli “intrusi”.
Sono le 20:58 e vicino la traccia radar dell’Itavia l’operatore di Ciampino nota per un istante una seconda traccia, sempre con codice transponder 1136. Presumibilmente è uno dei due MiG-23 libici che, seguito dai due caccia statunitensi, tenta di proteggersi come consuetudine, sotto l’ombra radar di un velivolo civile. Questa volta, però, è diverso: i piloti statunitensi sono molto decisi, hanno l’ordine di abbattere quei 2 “intrusi”. Uno dei due MiG scappa, defilandosi dal velivolo civile, perché ormai è troppo tardi, l’F-4 della USAF è perfettamente allineato al secondo MiG-23, che con un missile viene colpito ed esplode.
Il capitano Gatti, osserva il primo MiG scappare via, e infatti esclama “guarda, cos’è?”, ma l’abbattimento del secondo MiG sotto di loro e la conseguente esplosione, spezza in 2 tronconi il DC-9 che precipita inevitabilmente nel Tirreno. Per il secondo MiG-23, guidato dal pilota Ezzedin Fadah El Khalil, è solo questione di tempo. Verrà raggiunto dai caccia statunitensi poco dopo e cadrà nei pressi di Castelsilano.
La Libia di Gheddafi, per l’Italia, è stata per molti anni un alleato sulla sponda nordafricana e fornitore di energia, gas e petrolio. Gli anni ’70 avevano rappresentato anni d’oro per i rapporti italo-libici. L’intensità degli scambi commerciali nel 1977 indicava che oltre il 25% delle importazioni libiche proveniva dall’Italia per un valore di 1000 miliardi di lire. Erano stati firmati accordi per cui veniva garantito un ingente rifornimento di petrolio all’Italia in cambio della costruzione in Libia di infrastrutture e impianti siderurgici.
Tuttavia, il 1980, fu un periodo turbolento. A gennaio lo sguardo della comunità internazionale era abbastanza critico sulla Libia di Gheddafi, che aveva armato e addestrato i tunisini dissidenti, protagonisti della tentata occupazione della città di Gafsa, in Tunisia. Questo atto venne aspramente condannato da molte potenze europee, soprattutto dalla Francia, che inviò in Tunisia armamenti e aerei militari. Anche lo stesso presidente del Consiglio italiano, Francesco Cossiga, prese le distanze da Gheddafi. Poi la strage di Ustica cambiò tutto. Il terrore di perdere ogni rifornimento energetico era troppo forte, così si preferì insabbiare tutto e non dare la colpa a nessuno.
Le indagini, cominciate subito dopo la sciagura aerea, portarono solo al primo processo di appello 115 perizie, due milioni di pagine di istruttoria, 4 000 testimoni, 80 rogatorie internazionali, 300 miliardi di lire di sole spese processuali e quasi 300 udienze processuali. Nonostante tutto questo sforzo e nonostante siano passati ormai 40 anni, la verità sui fatti accaduti quella sera non è ancora venuta a galla. Il muro di gomma che è stato innalzato sulla strage di Ustica non è mai stato abbattuto e purtroppo quelle persone che persero la vita e le loro famiglie, attendono ancora di sapere la verità.