A cura di Francesco Salvaterra
È l’8 giugno 1985: i cosmonauti Vladimir Dzhanibekov e Viktor Savinikh viaggiano a bordo della loro Soyuz-T13 partita 2 giorni prima da Baikonur, diretti alla stazione sovietica Salyut-7. La missione è composta da soli due cosmonauti, al posto del terzo sono stati caricati viveri e acqua in eccesso, un carico insolito dal momento che la Salyut-7 viene costantemente rifornita dalle navicelle automatiche Progress.
Ma quella di Dzhanibekov e Savinikh non è una missione qualsiasi. La stazione a cui sono diretti, orgoglio del programma spaziale russo, non risponde a nessun ordine dal suolo a causa di una procedura errata nei comandi da terra e fluttua inerte e buia a poca distanza dai cosmonauti. È compito loro ripararla…
Il rendez-vous è una manovra complessa, soprattutto con un oggetto inerte e non collaborante come la Salyut-7, ma Dzhanibekov, comandante della Soyuz, è stato appositamente scelto per la sua bravura, dimostrata nel 1982, quando un guasto del computer di attracco automatico della sua Soyuz T-6 lo costrinse a una improvvisa manovra di attracco manuale alla stessa Salyut-7.
La Soyuz non possiede finestrini frontali, Dzhanibekov deve quindi attenersi alle procedure e avvicinarsi alla stazione trasversalmente, ispezionandola prima dai finestrini per verificarne l’integrità: la stazione poteva essere danneggiata da micrometeoriti o poteva ruotare fuori controllo.
Sono fortunati: la stazione è integra. Come previsto dalle osservazioni dal suolo, ruota dolcemente su sé stessa, nulla di grave. Qualcosa di insolito però colpisce i due cosmonauti e i tecnici che seguono la missione in diretta: la stazione ha un aspetto sinistro, i pannelli solari aggiuntivi sul lato sinistro non sono completamente estesi, segnale che i tecnici a terra e Savinikh, ingegnere di bordo esperto dei sistemi della Salyut, interpretano subito come un guasto all’impianto elettrico.
Dzhanibekov manovra la Soyuz per eseguire l’attracco, l’unica sua guida ora è il telemetro laser che ha di fronte. Alla distanza di 200 metri inizia l’avvicinamento, il contatto avverrà al punto di attracco anteriore della Salyut. Un colpo di motori di manovra e le due navicelle si agganciano perfettamente, è un successo, ma nessuno si ferma a festeggiare, lo stato della stazione è sconosciuto, se fosse depressurizzata la missione finirebbe qui.
Lentamente aprono i primi due portelli, quello della Soyuz e il primo della Salyut: con la gioia dell’equipaggio si aprono facilmente. Guardando all’interno del terzo e ultimo portello, quello che dà all’interno della stazione, i due cosmonauti rimangono quasi sotto choc: le pareti sono ricoperte da un sottile strato di ghiaccio, è probabile che le scorte di acqua siano anch’esse congelate.
Armati di cappotti invernali, guanti e maschere antigas i due si preparano a entrare. Aprono lentamente la valvola per equalizzare la pressione tra i due ambienti: sentiranno il sibilo dell’aria che segnala la differenza di pressione tra gli ambienti. Sono pronti a tornare di corsa sulla loro Soyuz nel caso la stazione sia completamente depressurizzata.
Il fischio inizia, ma dopo pochi istanti si soffoca. Dzhanibekov e Savinikh tirano un sospiro di sollievo. La sottile struttura che compone la stazione e li proteggerà dal freddo e dal vuoto è intatta, possono procedere.
Il primo a entrare è Dzhanibekov. Appena varcato il portello della stazione esclama “Колотун!” (“si congela qui!”). Savinikh si fionda all’interno, apre uno sportello sul pavimento e tenta di riattivare la corrente. Nulla. Non che si aspettasse diversamente. La situazione è critica: tutte le batterie sono scariche, a bordo si registrano 3 gradi, nessun impianto di areazione è in funzione e soprattutto l’acqua di bordo è congelata. Con le riserve sulla Soyuz razionate al massimo potranno durare altri sei giorni, troppo poco.
Savinikh toglie le coperture dagli oblò per fare entrare un po’ di luce e insieme a Dzhanibekov si leva lentamente la fastidiosa maschera. Una soddisfazione: perlomeno non c’è puzza di bruciato. In uno scompartimento sul tavolo trovano alcuni cracker e delle pastiglie di sale, parte di una tradizionale cerimonia di benvenuto mantenuta anche ai giorni nostri sulla ISS, quasi ironica nella situazione in cui si ritrovano Vladimir e Viktor. Nelle sue memorie Savinikh descrive l’insolito silenzio a bordo: “Sembrava di essere in una vecchia casa abbandonata, un assordante silenzio premeva sulle nostre orecchie”.
Il piano di lavoro deve essere svolto con cautela e tra mille difficoltà. I cosmonauti sono costretti a lavorare con colbacco, cappotto e guanti. Durante la notte devono farsi luce con delle torce elettriche. Lavorano uno alla volta: senza ventilazione l’anidride carbonica espirata potrebbe raccogliersi in una bolla intorno a loro e soffocarli, per questo motivo quando uno lavora l’altro lo sorveglia dall’interno della Soyuz, attento a ogni minimo accenno di avvelenamento.
Il giorno dopo Dzhanibekov è il primo a entrare, il suo compito è di verificare lo stato di “Rodnik”, il sistema di stoccaggio dell’acqua potabile, purtroppo versa in condizioni critiche. Da una discussione con il centro di comando:
Terra: “Volodya (abbreviativo di Vladimir), prova a sputare, si congela?”
Dzhanibekov: “Sto verificando. Ho sputato, si è congelato. In tre secondi.”
Terra: “Hai sputato sul finestrino o dove?”
Dzhanibekov: “No, sull’isolamento. La gomma si è congelata. È dura come roccia.”
Terra: “Questo non ci conforta affatto.”
Dzhanibekov: “Neanche a noi.”
Più tardi tocca a Savinikh, il cui compito è pompare aria nel sistema per verificare lo stato delle tubazioni.
Savinikh: “Ho gli schemi di Rodnik. La pompa è connessa. Le valvole non si aprono. C’è un ghiacciolo che esce dal tubo dell’aria.”
Terra: “Ricevuto, mettiamo da parte Rodnik per ora. Pensiamo ad altro. Dobbiamo scoprire quante batterie funzionanti abbiamo per poterle rianimare. Stiamo lavorando su una procedura per connettere i pannelli solari direttamente alle batterie.”
I problemi con Rodnik sono seri. L’equipaggio ha solo otto giorni per riparare la stazione, tre sono già passati riscaldando alcune riserve d’acqua con una lampada per le riprese ne potrebbero ottenere altri quattro…
La fine della storia nel prossimo articolo!
Fonti: Almanacco dello spazio (Paolo Attivissimo); New York Times, 7 febbraio 1991; Salyut 7, NASA; Mir Hardware Heritage, NASA, pp. 99-102; The little-known Soviet mission to rescue a dead space station, Nickolai Belakovski; People in the Control Loop, Boris Chertok, in Rockets and People, NASA, Savinikh, Victor. “Notes from a Dead Station.” Publishing House of the Alice System. 1999; Gudilin, V. E., Slabkiy, L. I. “Rocket-space systems.” Moscow, 1996; Blagov, Victor. “Technical abilities, mastery, and the courage of people.” Science and Life, 1985; Portree, David S. F. Mir hardware heritage. Washington, DC: National Aeronautics and Space Administration, 1995; Glazkov, Yu. N., Evich, A. F. “Repair on Orbit.” Science in the USSR, 1986; “Soyuz T-13.” Wikipedia; Kostin, Anatoly. “The Ergonomic Story of the Rescue of Salyut 7.” Ergonomist, February 2013; Chertok, B. E. “People in the Control Loop.” Rockets and People. Washington, DC: NASA, 2011. 513-19; Nesterova, V., O. Leonova, and O. Borisenko. “In Contact — Earth.” Around the World, October 197; Canby, Thomas Y. “Are the Soviets Ahead in Space?” National Geographic 170.4 (1986); Savinikh, Victor. “Vyatka Baikonur Space.” Moscow: MIIGAAiK. 2002.